Nella ripetizione, afferma Deleuze, “il movimento si svolge tra singolarità selvagge, nomadi, cioè, prive di identità nel concetto. E poi “la ripetizione è veramente ciò che si traveste costituendosi, ciò che si costituisce solo travestendosi. Essa non è sotto le maschere, ma si forma da una maschera all’altra, come da un punto rilevante a un altro, con e nelle varianti. Le maschere non nascondono nulla se non altre maschere” Entrambi, e cioè la ripetizione e le singolarità selvagge e nomadi, sono elementi con i quali il musicoterapeuta deve continuamente relazionarsi. Ogni musicoterapeuta prima o poi entrerà in contatto con lo strabordare del suo ego, fatto di ansie, desideri e convinzioni e le metterà in gioco in quel principio di ripetizione che rende la relazione un luogo dove si definisce e si rigenera la differenza. Uno spazio di conoscenza dove si allenta, rinforza o esplode l’ego del terapeuta. Il pensiero buddista afferma che “coloro che sono attaccati alle passioni ricadono nella corrente, come un ragno nella rete da esso stesso tesa”. Perché? Prima di rispondere a questa domanda dalla radici piuttosto complesse mi sembra obbligato citare un grande psicoanalista inglese e cioè Wilfred Bion che, rivolgendosi ai colleghi psicoanalisti al fine di orientarli ad assumere un atteggiamento che egli ritiene essere quello “corretto” durante il lavoro in seduta, afferma che è fondamentale relazionarsi al paziente “senza memoria e senza desiderio”.Per memoria Bion si riferisce al passato (già accaduto o già conosciuto e quindi che può essere ricordato), mentre per desiderio fa riferimento al futuro (ciò verso cui ci si orienta o si fantastica, ciò che si desidera accada o si cerca di indurre). Poiché secondo Bion, il terapeuta si relaziona continuamente con forme di distorsione dell’attenzione che allontanano da ciò che “sta accadendo ora, nel momento presente”. Per realizzare tale presenza, per divenire il più possibile consapevoli di “ciò che è” e “di ciò che si è” qui e ora, sembra dunque rendersi necessario passare – paradossalmente – per l’assenza: abbiamo bisogno di farci capaci di tollerare l’assenza, il vuoto, l’insaturo. L’assenza, il vuoto, l’insaturo sono gli elementi che vengono fuori nella ripetizione e cioè in quella condizione in cui il musicoterapeuta “rispecchia il suono dell’altro” o aspetta che l’altro faccia un gesto o un cenno, o ancora, che l’altro si muova e in questo turbinio di sensazioni è facile che possa ripresentansi quel movimento impervio dove agiscono singolarità selvagge e nomadi. Un luogo infinitamente ampio dove il musicoterapeuta può desiderare che l’altro suoni, che si avvicini, che possa abbracciarlo, che non possa negare la sua presenza e in questo dispendio di energie emergono ombre del passato (mi sta capitando di nuovo, non sono bravo) o le ansie del futuro (non riuscirò a costruire una relazione). Ogni qual volta il musicoterapeuta non riesce a galleggiare nel vortice di questa tempesta nutre il suo ego, e cioè il desiderio di essere, di avere, di guarire e di suonare .E nel non considerare questa condizione viene inevitabilmente risucchiato da una dimensione temporale che non appartiene alla realtà (il qui e ora), ma a un forma ideale non ancora compiuta. Negli anni della formazione e nel periodo in cui esercita la sua professione il musicoterapeuta è fondamentale che abbandoni pienamente questa sua estremizzazione di se stesso al fine di rendere le sedute aperte alla libera espressione generata da uno sguardo consapevole che sia capace di orientarsi “senza memoria e senza desiderio” .
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